mercoledì 25 marzo 2015

La tassazione sulla previdenza integrativa



Per chiudere il nostro excursus sulla previdenza integrativa, dopo averne già parlato qui e qui, vediamo adesso di capirne di più sulle conseguenze fiscali.
È fondamentale distinguere fra la tassazione sul rendimento e quella sul capitale: sia per i tempi che per l’entità del prelievo.


Infatti, il rendimento è tassato ogni anno, via via che matura; il capitale, invece, è tassato all’atto dell’erogazione del vitalizio mensile, o della corresponsione del capitale stesso nelle ipotesi che abbiamo già sviscerato, in cui una parte di esso (fino al 50% o, eccezionalmente, fino al 100%) viene richiesto in un colpo solo. Il dato comune è che si tratta in ogni caso di tassazioni separate e sostitutive rispetto alla tradizionale IRPEF: una volta defalcate le imposte, quello che resta non si sommerà agli altri redditi del contribuente e si potrà considerare come un netto fruibile a titolo definitivo.
Ebbene, il rendimento è tassato dal 1 gennaio 2014 con l’aliquota teorica del 20% (un balzo notevole dall’11% prima vigente). Ma perché abbiamo detto “teorica”? Perché è previsto che, qualora il fondo pensione abbia investito in titoli del debito pubblico italiano, l’aliquota effettivamente applicata decresce secondo un meccanismo di calcolo piuttosto complesso, fino ad un minimo applicabile pari al 12,5%. Questo dovrebbe attivare un meccanismo virtuoso: infatti, le varie compagnie sono incentivate ad acquistare i nostri titoli di Stato, al fine di offrire ai propri clienti una tassazione più agevolata e quindi un’offerta più competitiva.


Per quanto riguarda il capitale, invece, anch’esso è tassato con un’aliquota teorica: il 15%. “Teorica” poiché da quest’importo occorre togliere lo 0,3% per ogni anno trascorso a contribuire alla previdenza integrativa. L’aliquota effettiva, perciò, decresce fino ad un minimo del 9% (fruibile in caso di partecipazione al piano individuale pensionistico per vent’anni o più).
Ma occorre fare ulteriori precisazioni. Innanzitutto, è esente da tassazione la parte del capitale costituita dal TFR eventualmente destinato alla previdenza integrativa, poiché già tassato a suo tempo; sono inoltre esenti tutti gli importi che a suo tempo non furono dedotti dal reddito.
È infatti consentito ogni anno dedurre dalla propria base imponibile IRPEF un importo pari ai contributi versati per sé o per i propri familiari a carico fino ad un massimo di € 5.164,57. Invece la quota di contributi non dedotta (perché dimenticata, perché superiore alla soglia massima consentita, perché volutamente tralasciata in quanto la tassazione IRPEF sarebbe comunque stata modesta o nulla), parallelamente non sarà tassata quando sarà restituita a suo tempo sotto forma di capitale dalla compagnia bancaria o assicurativa. Questo purché ogni anno entro il 31 dicembre il contribuente informi la società della quota di contributi non dedotti nella propria dichiarazione dei redditi; altrimenti la compagnia potrà legittimamente pensare che quei contributi sono stati totalmente dedotti e dunque che si dovrà applicare la tassazione sostitutiva senza sconti.


Infine, un’agevolazione riservata ai cosiddetti “lavoratori di prima occupazione”: coloro che si trovano a versare contributi integrativi per la prima volta nei primi cinque anni, potranno, a partire dal sesto anno e fino al venticinquesimo, dedurre annualmente i contributi versati dalla propria base imponibile IRPEF non fino alla soglia massima di € 5.164,57 bensì di € 7.746,86.

venerdì 20 marzo 2015

Le regole della previdenza integrativa



Abbiamo chiarito in linea generale che cos’è la previdenza integrativa, ma abbiamo segnalato en passant che, ferma restando la libertà contrattuale delle parti, esistono numerosi paletti che tutti i piani individuali pensionistici devono rispettare per garantire il rispetto delle finalità sociali del cosiddetto “secondo pilastro” previdenziale.
Vediamo dunque di capirne di più, rinviando tuttavia ai dettagliatissimi prospetti informativi delle società bancarie e assicurative per maggiori dettagli. 


Innanzitutto, la contribuzione volontaria del cittadino non può essere imposta: gli deve essere lasciata libertà di decidere quanto e quando versare, e anche di modificare queste scelte in qualsiasi momento. Pertanto, potrà essere consentito, per fare un esempio, di versare cento euro al mese e magari, se in seguito gli affari vanno male, ridurre tale cifra a cinquanta o magari sospendere del tutto e riprendere in un altro momento.
In secondo luogo, il contribuente può decidere in ogni momento di cambiare compagnia (purché siano trascorsi almeno due anni dalla sottoscrizione della polizza). In tal caso, l’intero montante maturato fino a quel momento verrà trasferito alla nuova società senza alcun onere per il cittadino.
In terzo luogo, non è previsto in automatico alcun trattamento di reversibilità a favore del vedova o vedova o altri soggetti: questa è semmai un’opzione che le compagnie possono prevedere e i contributori possono liberamente sottoscrivere o meno (ma la conseguenza è un aumento dei costi a favore della compagnia).


Ancora: al momento di andare in pensione il cittadino può scegliere che gli venga conferito immediatamente un importo pari a non più del 50% del montante contributivo maturato (o perfino del 100%, in casi molto particolari), lasciando che dunque solo la parte restante sia utilizzata per il calcolo della pensione mensile.
Va anche segnalato che si può scegliere di continuare a versare contributi anche dopo essere andati in pensione con il sistema pubblico; in tal caso, si potrà godere di un assegno integrativo per meno anni ma per importi più sostanziosi (dato che aumenta il montante e si riducono gli anni di fruizione).
Ma può il contribuente cambiare idea e ritirare quanto versato prima del tempo insieme al rendimento maturato nel frattempo? La risposta è: in parte. Poiché lo scopo è anche quello di evitare che il cittadino si mangi tutto prima di arrivare alla vecchiaia con la conseguenza che sarà poi lo Stato a doverlo mantenere con l’assegno sociale, le anticipazioni sul montante sono consentite solo entro precisi limiti: si può chiedere in qualsiasi momento fino al 75% del montante per fronteggiare le spese sanitarie dovute a gravissime patologie o infortuni proprie, del coniuge o dei figli; fino al 75% del montante per acquisto o ristrutturazione della prima casa per i medesimi soggetti, ma solo se la sottoscrizione è avvenuta da almeno otto anni; fino al 30% del montante se non ricorrono i motivi appena descritti, ma anche qui solo se sono decorsi almeno otto anni dalla sottoscrizione. Anche qualora ricorrano nel tempo più motivi, la somma di tutti i prelievi non può mai superare il 75%; è comunque consentito ripristinare in tutto o in parte gli importi prelevati eseguendo delle contribuzioni straordinarie.



E se il sottoscrittore dovesse abbandonare questa valle di lacrime prima di arrivare alla pensione? L’intero montante maturato fino a quel momento sarà liquidato a favore degli eredi legittimi, o di eventuali altri beneficiari indicati liberamente dal defunto all’atto della sottoscrizione della polizza.
Infine, quanto costa una pensione complementare? Qui davvero non possiamo approfondire, poiché si tratta di confrontare le condizioni proposte dai tanti soggetti che operano sul mercato. In generale, ci saranno compensi detratti dal rendimento che matura via via, oppure commissioni da pagare per situazioni particolari come il riscatto anticipato.


Possiamo però riprendere il consiglio dato all’inizio: le compagnie devono fornire dei prospetti informativi molto chiari e dettagliati; ebbene, leggeteli, leggeteli sempre e leggeteli fino in fondo, e fate confronti fra le diverse opzioni; e se proprio vi ritenete inadatti a fare in prima persona queste analisi, rivolgetevi ad un consulente finanziario o a un’associazione di consumatori. Se firmate qualcosa senza esservi informati a dovere, poi non potete lamentarvi con altri se non con voi stessi.
Nel prossimo articolo concluderemo il nostro piccolo tour previdenziale andando infine a spulciare gli aspetti fiscali.

lunedì 16 marzo 2015

Cos'è la previdenza integrativa?



Con il trascorrere del tempo, appare sempre più evidente di come il sistema pubblico non sia più in grado di garantire ai cittadini una pensione soddisfacente. Il passaggio al sistema contributivo, entrato in vigore ormai da quasi vent’anni, nonché le svariate riforme succedutesi negli anni e tendenti per lo più al rialzo dell’età pensionabile, hanno infatti avuto l’obiettivo di mettere in sicurezza i conti dello Stato, ma il prezzo da pagare è stato inevitabilmente di rinviare in avanti la data del ritiro dalla vita lavorativa e di abbassare l’entità media dell’agognato assegno mensile.


È per questo motivo che il terreno in cui fioriscono le proposte di previdenza integrativa (o complementare, che dir si voglia) è via via sempre più fertile. Tuttavia, in confronto agli altri grandi Paesi europei, in Italia sono ancora proporzionalmente molto pochi coloro che hanno fatto questa scelta: un po’ per diffidenza, un po’ per scarsa percezione del futuro, un po’ (soprattutto) per i pochi quattrini a disposizione in questi duri anni di crisi.
Tuttavia, la crescita del cosiddetto “secondo pilastro” della previdenza esiste, per quanto lenta, anche per le varie spinte legislative, dalla normativa sul TFR alle varie agevolazioni tributarie (su cui peraltro abbiamo avuto una recentissima retromarcia). 


Rinviando ad un successivo articolo gli approfondimenti di natura squisitamente fiscale, vediamo intanto di capirne di più sul funzionamento della previdenza integrativa. La legge fissa infatti alcuni paletti molto precisi, all’interno dei quali si muove l’autonomia delle grandi compagnie bancarie e assicurative che operano nel settore nonché, com’è ovvio, la discrezionalità del contribuente.
In estrema sintesi, nel corso della vita lavorativa il contribuente versa denaro al fondo prescelto, o anche a più di uno, se preferisce; quando poi raggiungerà i requisiti per andare in pensione secondo il sistema previdenziale pubblico, nello stesso momento potrà iniziare a fruire anche del trattamento integrativo (che, come suggerisce il termine, integra e non sostituisce il vitalizio pubblico).
In pratica, i contributi versati nel corso degli anni (il capitale) avranno maturato degli interessi, il cosiddetto “rendimento”. La somma di capitale e rendimento porta ad un totale che si chiama “montante contributivo”. Di norma, il pensionato potrà così godere di un assegno mensile dato dal rapporto fra il montante contributivo e il numero di mesi che – si suppone – gli restano da vivere in base alle statistiche sulla vita media.
Per esempio: se egli ha maturato un montante di 90.000 euro, va in pensione a 70 anni e la vita media calcolata in quel momento è pari a 85, si calcola perciò che gli rimangano ancora 180 mesi da vivere, e dunque fruirà di 500 euro al mese finché campa. Ovviamente, se la sfortuna vuole che il poveretto ci rimetta le penne dopo un mese, aver risparmiato tanto durante la giovinezza non si sarà rivelato un grande affare; ma se invece riuscirà a festeggiare le cento candeline, al contrario, avrà riavuto indietro molto di più di quanto aveva versato.


Chiaramente, il calcolo non è davvero così semplificato. Entrano in gioco altre variabili, come il prelievo fiscale e la rivalutazione dell’assegno in base all’inflazione, ma in maniera grossolana il meccanismo è proprio questo.
Ci sono poi, come accennato, alcune basi legislative che regolano il sistema dei piani individuali pensionistici: insomma, la libertà contrattuale non può violare una serie di paletti volti a garantire il raggiungimento delle finalità sociali complessive del sistema. Ma su questo ritorneremo la prossima volta.