Per
chiudere il nostro excursus sulla previdenza integrativa, dopo averne già
parlato qui e qui, vediamo adesso di capirne di più sulle conseguenze fiscali.
È
fondamentale distinguere fra la
tassazione sul rendimento e quella sul capitale: sia per i tempi che per
l’entità del prelievo.
Infatti,
il rendimento è tassato ogni anno, via via che matura; il capitale, invece, è
tassato all’atto dell’erogazione del vitalizio mensile, o della corresponsione
del capitale stesso nelle ipotesi che abbiamo già sviscerato, in cui una parte
di esso (fino al 50% o, eccezionalmente, fino al 100%) viene richiesto in un
colpo solo. Il dato comune è che si tratta in ogni caso di tassazioni separate e sostitutive rispetto alla tradizionale IRPEF:
una volta defalcate le imposte, quello che resta non si sommerà agli altri
redditi del contribuente e si potrà considerare come un netto fruibile a titolo
definitivo.
Ebbene,
il rendimento è tassato dal 1
gennaio 2014 con l’aliquota teorica del
20% (un balzo notevole dall’11% prima vigente). Ma perché abbiamo detto
“teorica”? Perché è previsto che, qualora il fondo pensione abbia investito in titoli del debito pubblico
italiano, l’aliquota effettivamente applicata decresce secondo un meccanismo di calcolo piuttosto complesso, fino
ad un minimo applicabile pari al 12,5%.
Questo dovrebbe attivare un meccanismo virtuoso: infatti, le varie compagnie
sono incentivate ad acquistare i nostri titoli di Stato, al fine di offrire ai
propri clienti una tassazione più agevolata e quindi un’offerta più
competitiva.
Per
quanto riguarda il capitale, invece,
anch’esso è tassato con un’aliquota
teorica: il 15%. “Teorica” poiché da quest’importo occorre togliere lo 0,3% per ogni anno trascorso a
contribuire alla previdenza integrativa. L’aliquota effettiva, perciò, decresce
fino ad un minimo del 9% (fruibile
in caso di partecipazione al piano individuale pensionistico per vent’anni o
più).
Ma
occorre fare ulteriori precisazioni. Innanzitutto, è esente da tassazione la parte del capitale costituita dal TFR eventualmente destinato alla
previdenza integrativa, poiché già tassato a suo tempo; sono inoltre esenti tutti gli importi che a suo tempo non furono
dedotti dal reddito.
È
infatti consentito ogni anno dedurre dalla propria base imponibile IRPEF un
importo pari ai contributi versati per sé o per i propri familiari a carico
fino ad un massimo di € 5.164,57.
Invece la quota di contributi non dedotta (perché dimenticata, perché superiore
alla soglia massima consentita, perché volutamente tralasciata in quanto la
tassazione IRPEF sarebbe comunque stata modesta o nulla), parallelamente non
sarà tassata quando sarà restituita a suo tempo sotto forma di capitale dalla
compagnia bancaria o assicurativa. Questo purché ogni anno entro il 31 dicembre il contribuente informi la società della quota
di contributi non dedotti nella propria dichiarazione dei redditi; altrimenti
la compagnia potrà legittimamente pensare che quei contributi sono stati totalmente
dedotti e dunque che si dovrà applicare la tassazione sostitutiva senza sconti.
Infine,
un’agevolazione riservata ai cosiddetti “lavoratori
di prima occupazione”: coloro che si trovano a versare contributi
integrativi per la prima volta nei primi cinque anni, potranno, a partire dal sesto anno e fino al venticinquesimo,
dedurre annualmente i contributi versati dalla propria base imponibile IRPEF
non fino alla soglia massima di € 5.164,57 bensì di € 7.746,86.